Biography, reviews, texts

Oltre l'azzurro (Beyond the Blue, a novel by Cesare Bedognè)

30/11/2016
Oltre l'azzurro/Beyond the Blue, a novel by Cesare Bedognè

Cover by Cesare Bedognè, the book also includes four black and white photographs

ABao AQu 2012 (book published in Italian)




An excerpt from the first few pages of the book, with English translation:








Vivo nel luogo dove gli uomini soli
hanno paura di entrare, al crepuscolo.
La mia stanza, quando il sole è al suo apice,
è la stanza di Dio.

I live in a place where lonely men
are afraid to enter, at dusk.
My room, when the sun is at its height,
is the room of God.






Capitolo 1 RITORNO


Si racchiuse in bozzoli di malinconia, stanze di solitudine, corridoi di silenzio.

Nascose lo specchio con una vecchia giacca, staccò i quadri dalle pareti, dimenticò suoni e voci.

Rimase il letto, un tavolino, due seggiole.
E i grandi occhi del vuoto – inchiodati al muro.

Non aggiunse una parola a questo racconto: posò le mani sul tavolo e non aprì più bocca.



Chapter 1 RETURN


He enshrouded himself in layers of melancholy, chambers of loneliness, corridors of silence.

He concealed the mirror with an old coat, took the pictures off the wall, forgot sounds and voices.

There remained the bed, a table, two chairs.
And the great eyes of emptiness - staring from the wall.

He added not a word to this story: he put his hands on the table and opened his mouth no more.







Dai rami denudati cadono anche le ultime foglie d’Autunno: al di là dei vetri offuscati, oltre le finestre infrante degli occhi.


Even the last autumn leaves fall from the stark, naked branches: beyond the clouded panes, beyond the shattered windows of the eyes.





D’un tratto m’invade la stessa angoscia di un tempo. Molle, torbida: tutto il suo veleno.
Come se fosse rimasta qui, ad attendermi, in agguato nella nebbia: come se la Morte non avesse intaccato nulla.
Vivo sulla superficie delle cose, tutto mi scorre addosso come acqua – gesti volti sorrisi.
Non vi è più senso di realtà se non nella coscienza del dolore: il resto è sogno, evanescenza che ferisce.

Suddenly I am flooded with the same anxiety of old. Soft, turbid: with all its venom.
As though it had remained here, waiting for me, prowling in the fog; as though Death had eroded nothing.
I live on the surface of things; everything gushing over me like water: gestures, smiles, faces.
The only sense of reality is in the consciousness of grief: the rest is a dream, a painful evanescence.





Le notti di questa casa sono piene di tanti piccoli suoni che non conosco: acqua che scorre nelle tubature, scricchiolii; macchine che passano, voci in lontananza.
Ma l’acqua, soprattutto, nelle increspature del silenzio.
Anche la solitudine non è più quella di prima:
la mia solitudine è una solitudine al di là di me, il mio dolore un dolore più profondo di me...
I vicoli decomposti di questa città, che non portano in nessun luogo.

Nights in this house are full of faint sounds that I do not know: water flowing in the pipes, creaks; the slosh of passing cars, voices in the distance.
But most of all water, rippling in the folds of silence.
Even loneliness is not the same anymore: my solitude is a solitude beyond myself, my sorrow a sorrow deeper than myself…
The decomposed alleys of this town, leading nowhere.





Pagina che s’apre allo sguardo, bianco schermo silenzioso dove abbandonare la propria estrema stanchezza.
Il mondo è lontano, oltre le pareti del dolore.
Lentamente, tutto si dissolve: restano vasti spazi ventosi.


White page staring at me, blank silent screen where one can cast off one’s own extreme weariness.
The world is far away, beyond the walls of sorrow.
Everything slowly dissolves: vast and windy hollows remain.






Frugo tra le mie vecchie carte: trovo luoghi di passaggio, camere d’albergo, periferie senza nome. Questi diari nascosti per anni nel vecchio baule di marinaio – grafia che quasi non riconosco.



Rummaging through my old notebooks, I find only stopovers, hotel rooms, nameless outskirts. Diaries hidden for years in my old sea chest - handwriting I barely recognise.







Groningen, Ottobre ‘95


Alberi denudati, foglie imputridite nei canali, malinconia d’Autunno.
Un’altra giornata di pioggia.
Le gocce scivolano lente sui vetri opachi della finestra, s’aggrappano luccicanti alle piccole bacche azzurre, in giardino; inumidiscono frammenti di muro.
Siedo nella Camera della Nostalgia, mi guardo attorno, e sento che tutto questo un giorno mi sarà portato via; non sarà più mio...
Non rimarrà più nulla – queste pagine ingiallite, il pacchetto di tabacco Troost, gli abiti sparsi ovunque; il solito caro, sognante disordine... Nulla, neppure la giacca di Ullapool, appesa a un vecchio chiodo – il suo profumo d’oceano.
Come reliquie d’un mondo già dimenticato: la poltrona giallastra, semisfondata; una pianta orien-tale dalle lunghe foglie, eleganti come arazzi, illuminate dal lume rosso e fioco della lanterna del Viandante Notturno.
C’è un’altra lampada – più alta di un uomo – in un angolo di questa mia stanza infinita, dove s’attorciglia come un rampicante la gomena arancione che trovammo una notte di nebbia, a Noorderhaven.
Poi il riflesso d’un vaso di vetro – la sua leggerezza di neve, di betulle che stormiscono al vento – e un baule, che servì un tempo a trasportare abiti di marinai che s’imbarcavano per le Indie lontane.
Ora contiene lettere, diari, fotografie; insomma l’anima – più o meno inutile – di un uomo, e così continua a viaggiare.
Dimenticavo una mela rossa, raggrinzita, e alcuni biglietti del cinema, gialli e azzurri: se li si annusa sanno di birra stantia e pianoforti scordati.
Anche la porta di questa stanza è rossa – rossa come sangue rappreso, come angoscia, come labbra rosse e umide.
La moquette è di un verde logoro e polveroso, come
i muschi d’Autunno, in montagna: ci si può sdraiare comodamente, la notte, e perdersi nel bosco.
Questi i colori della Camera della Nostalgia, in un giorno di pioggia: qui tutti i fischi di treni partiti, soli frantumati nel silenzio, e grida.
Qui cadono le stelle ad una ad una, e tutto precipita in un sibilo di vento.
Qui tutti i vascelli affondati e le navi in fuga, oltre i graffi della tappezzeria, nella Terra del Crepuscolo.



Groningen, October ‘95

Naked trees, rotting leaves in the canals, autumn melancholy.
Another rainy day.
The raindrops slowly slide across the opaque window-panes; they cling, glistening, to the small blue berries in the garden; they moisten fragments of the wall.
I sit in the Room of Nostalgia looking about me, and I feel that one day all this will disappear, none of this will be mine any more…
Nothing will remain: these yellowed pages, the packet of Troost tobacco, my clothes scattered everywhere; the usual comforting, dreamy disorder.... Nothing, not even the Ullapool tweed coat, hung on an old nail - its ocean scent.
Like relics of a world already forgotten: the yellowish run-down armchair; a long-leafed oriental plant, as elegant as a faded tapestry, lit by the dim red Lantern of the Nocturnal Wanderer.
In a corner of this boundless room of mine, there is another lamp - taller than a man - on which the orange hawser we found one foggy night at Noorderhaven, winds like a creeper.
Then the reflections of a glass vase – its snow-like lightness of birch-trees rustling in the wind – and a sea chest once used to carry the clothes of sailors embarking for the East Indies.
Now it contains letters, diaries, photographs: in short, the soul - more or less useless - of a man, and so its voyage continues.
I was forgetting a shrivelled red apple and a few cinema stubs - blue and yellow - if one sniffs them, they still smell of stale beer and out-of-tune pianos.
Even the door of this room is red: red like clotted blood, like grief, like red moist lips.
The carpet is a worn, dusty green, like autumnal moss in the mountains: where one can comfortably stretch out, at nightfall, and lose oneself in the woods.
These the colours of the Room of Nostalgia on a rainy day: here, all the whistles of departed trains, splintered suns in silence, and cries.
Here the stars fall one by one, and everything plummets with the hissing wind.




Dopo la prima settimana di isolamento, in uno strano attimo di vertigine fuggimmo dall'ospedale, per andare a mangiare un gelato: sgusciammo via come se nulla fosse, tra medici e infermieri distratti.
Monique indossava una maglietta verde, molto aderente, sotto alla quale s’intuivano i capezzoli turgidi; ciondolavano dalle braccia bluastre tubicini e cateteri. I capelli s’erano fatti opachi, incolori: iniziavano a cadere a grandi ciocche.
Quella sera mi chiese di rasarle il capo.
Poi volle essere fotografata: nella fredda incandescenza della luce artificiale una donna allo specchio, per la prima volta, contemplava l’immagine della propria morte.

After the first week of isolation, in a strange moment of giddiness, we fled the hospital and went to have an ice cream, slipping out -just like that- past doctors and distracted nurses.
Monique was wearing a tight green T-shirt revealing a hint of her turgid nipples; a number of little tubes and catheters dangled from her bluish arms. Her hair had become dull and colourless; big clumps of it had begun to fall away.
That evening, she asked me to shave her head.
Then she wanted to be photographed, in the cold glow of the artificial light: a woman at the mirror, contemplating for the first time the image of her own death.




Fotografia non ancora sgualcita, nel brancolare del ricordo: una stanza da bagno, luce abbagliante, il suo capo nudo.
Si guarda di sbieco, come esitando – forse
ancora più bella, gli occhi insolitamente scuriti, e strani – volto congelato in un istante senza tempo.
Il luccichio d’un braccialetto – capelli per terra, quasi invisibili, piastrelle… – tutto quello che l’immagine non contiene: lei che si porta le mani alla bocca, dopo lo scatto dell’otturatore.
Nulla riflette, il pallido specchio: il vento soffia nelle mie stanze vuote.


Photograph not yet creased, in the groping of memory: a bathroom, the blinding light, her shorn head.
She looks at herself sideways, as though hesitating - maybe even more beautiful, her eyes unusually darkened, and strange - her face frozen in a timeless instant.
The glitter of a bracelet – her hair on the floor, almost invisible, tiles… – everything the image does not encompass: she raising her hand to her mouth, after the shutter click.
The pale mirror reflects nothing: the wind blows through my empty rooms.





(........)


Dal Capitolo 2 (from Chapter 2)



È scomparsa, la ragazza,
coi suoi passi di neve. Si aprono
i boccaporti dell’alba. Scuote tutte le vele,
il vento – lucidi artigli serrano
una nuda assenza


She’s gone, the girl
with her snow-like footstep. Dawn
bursts open its hatchways. The wind flutters
all the sails - shiny claws clench
a naked absence.




Continuo a sfogliare le fotografie, come varchi aperti nella memoria.
Monique seduta per terra, una giacca di tweed appoggiata sulle spalle nude. Un ciuffo biondo le ricade sulla fronte spaziosa, forse ab-biamo appena fatto l’amore: mi sforzo di ricordare quel mattino, non ci riesco. Rimane soltanto l’immagine, inafferrabile.
E riecco la mia prima stanza d’esilio, affacciata su periferie senza nome, riflessa in uno specchio offuscato. Dietro al ritratto di Munch e alle mie valigie di cartone, una spettrale luna d’Autunno, sperduta nella notte immutabile, nera.
Non sono mai più riuscito a stamparlo allo
stesso modo, quel negativo; irripetibile magia, alchimie della Stanza degli Spiriti…
Poi, molti anni più tardi, le finestre infrante della Galileistraat come un grido soffocato nella pioggia: il vetro sporco e umido vela di malinconia lontane finestre accese, dall’altra parte della sera.
Fotografie, maschere funebri di eventi irrimediabilmente perduti, nel silenzio del giorno.
Il vano ombroso di una porta, a Delft, e le immagini della vita, fluttuanti nello specchio: quella Porta Oscura che avrebbe presto inghiottito tutto quello che mi apparteneva; la mia piccola valigia di forme fragili, sussurri, leggerezza...
Resta una giacca appesa all’attaccapanni, in una stanza vuota.
L’ultima fotografia è un ritratto di Monique: mi ero avvicinato, con l’obiettivo, fino a manda-
re l’inquadratura leggermente fuori fuoco, qua-si a voler sondare i limiti del visibile. Era ancora la purezza del primo amore, ma sembra già un ritratto di cadavere: non sono mai riuscito a sciogliere l’enigma di quel volto...
Dopo tanti anni le stampe sono ancora qui, tra le mie dita, il mistero rimane.


I keep leafing through the photographs, opening doorways to the rooms of memory.
Monique sitting on the floor, tweed jacket over her naked shoulders. A lock of blonde hair falling back on her spacious brow - perhaps we have just made love - I strive to remember that morning, I can’t. Only the picture remains, unreachable.
And here again is my first room of exile, overlooking desolate suburbs, mirrored by a cloudy vase. Behind Munch’s portrait and my cardboard boxes, a spectral autumnal moon, lost in the immutable, black night.
I never managed to print that photograph in the same way again; unrepeatable magic, alchemies of the Chamber of the Spirits….
Many years later, in the Hague, the Galileistraat’s cracked panes like a scream smothered by the rain: the surface damp and dirty veils of melancholy distant, glowing windows, on the other side of the evening.
Photographs, funeral masks of events irremediably lost, in the silence of the day. The shadowy opening of a Delft doorway, and the images of life, fluctuating in a dusting of light: that Dark Door that would soon have swallowed everything that belonged to me - my little suitcase of frail forms, whispers, and lightness…
All that remains is a jacket hung on a peg, in an empty room.
The last photograph is a portrait of Monique: I came close to her, with the lens, until the image went slightly out of focus, as if in a failed attempt to fathom the borders of the visible.
It was still in the purity of first love but it already seems the portrait of a corpse: I have yet to solve the enigma of that face...
After many years, the prints are still here, in my hands: the mystery remains.




Tra le pagine dei miei taccuini, la mia vecchia Amsterdam, cupo labirinto di canali e sguardi racchiusi nel ghiaccio – quella città misteriosa dall’odore leggermente nauseabondo di pommes frites, hashish, foglie marcite – il porto dal quale partivo per non cessare di tornare, la mia Amsterdam perduta per sempre, ormai.

Amongst the tattered pages of a notebook, my old Amsterdam – the gloomy labyrinth of canals and eyes enclosed within the ice – that mysterious town faintly smelling of pommes frites, hashish, rotten leaves: the port I was ever leaving so that I might never cease returning, my Amsterdam lost for good by now.



Amsterdam, 4 Gennaio ‘91


Cantano le ore tra sguardi notturni: ponti, canali, luci tremolanti sull’acqua.
Parole s’osservano allo specchio, spaurite, e fine-stre s’aprono all’orizzonte dei sogni.
Ombre inquiete percorrono le palpebre dei pas-santi: pupille che affondano in altri mari, occhi colmi d’acque strane.
Come uno scivolare nel silenzio, un annidarsi nelle fenditure della notte – essere lontani, stranieri.
Solitudine nel bar “Senza Nome”, scintilla d’iride frantumata, tagliente: due ragazze s’accarezzano le mani, sussurrano. Pagine bianche, labbra chiuse: una disperazione sottile, grigio-azzurra.
Fissare il tramonto del viaggio con occhi di vento e d’acciaio.



Amsterdam (January 4, ’91)


The hours sing amidst nocturnal glances: bridges, canals, lights shimmering upon the waters.
Words scan themselves in the mirror, frightened, and windows look upon horizons of dreams.
Restless shadows flicker upon the eyelids of passers-by: pupils sinking into other seas, eyes brimming with strange waters.
Like sliding into silence, nesting into the crevices of the night - to be far away, a stranger.
Loneliness in the “No Name” bar – the sparkle of a shattered, sharp iris – two girls caressing each other’s hands; whispering. White pages, lips sealed, a sheer desperation, blue-grey.
I gaze at this journey’s sunset with eyes of wind and steel.











An introduction by Anna Bordoni Di Trapani (the English translation follows)

Il nucleo narrativo originario di Oltre l’azzurro è un’intensa storia d’amore, di malattia e di morte, che ha come teatro l’Olanda. A raccontarla, o meglio ad evocarla, in prima persona, è il protagonista stesso.
L’opera si presenta dunque come un libro di memorie private, un’autobiografia in versione moderna. Infatti l’approccio alla materia e la struttura del discorso poco o nulla hanno a che vedere col genere autobiografico di tipo classico, dove il recupero memoriale si concretizza in una ordinata scansione di vicende, fra loro logicamente concatenate, disposte lungo un asse cronologico reale, in modo che la narrazione fluisca regolarmente, da un prima a un poi, fino alla conclusione della vicenda.
Il nostro narratore rifiuta decisamente le convenzioni deformanti della narrativa d’intreccio, che ignora la complessità inattingibile del reale, e opta senz’altro per l’acronia: ciò non significa che il discorso non abbia una sua coerenza interna, ma che essa andrà ricercata altrove, ad altri livelli strutturali.
Il fatto è che qui la macchina da presa punta il suo obiettivo non sull’io narrato, protagonista della storia passata, ma sull’io che narra, sulla sua attuale straordinaria esperienza memoriale: ad essere messa a fuoco, in primo piano, è la figura del narratore nell’atto in cui rivive i frammenti del proprio passato, fuori dal tempo, immerso in un “eterno presente”, nel presente della memoria: un tempo soggettivo, tutto interiore, quello dell’anima, dove il passato non si cancella ma dura riversando le sue ombre e le sue luci in un “ infinito continuo”: riaffiorano così alla coscienza, rimettendosi in circolo nel flusso della vita, porti impazziti di luce e città grigie senz’anima, albe stupefatte e soli frantumati, frammenti di eternità e schegge di dolore, la Camera della Nostalgia e la Stanza delle Finestre Infrante.... Il protagonista vive dunque in questa dimensione atemporale, passando da uno stato di coscienza all’altro, assecondando di volta in volta il riemergere spontaneo e intermittente dei fantasmi che dalle stanze della memoria si riaffacciano alla sua coscienza e la abitano. Al narratore si aprono così spazi sconfinati dove fluisce un ininterrotto monologo e dialogo interiore: ricordi, nostalgie, evocazioni, libere associazioni, meditazioni; ed egli tutto registra fedelmente nella scrittura, come ubbidendo ad un imperante dettato interiore.
Di qui il procedere del discorso per frammenti, a volte brevissimi, evidenziati anche tipograficamente dallo spazio bianco che li separa l’uno dall’altro. Una fuga di immagini folgoranti, di forte impatto visivo, che scorrono dinanzi agli occhi del protagonista come su uno schermo, fotogrammi legati fra loro secondo un montaggio quasi cinematografico. Col risultato che la materia autobiografica è sottoposta ad un processo di frammentazione che ovviamente destruttura il racconto: solo raramente il discorso si distende, concede qualche spazio a una vera e propria narrazione.
Le stesse pagine di diario, risalenti all’epoca della storia, che l’autore inserisce qua e là nel discorso, come segni tangibili di continuità, mantenendole visivamente distinte dalle parti nuove, grazie al carattere tipografico corsivo, non assolvono tanto la funzione di recupero memoriale, secondo la tecnica cinematografica del flash-back, ma entrano a far parte dell’attuale esperienza come nuovi possibili spunti evocativi di una storia che è essenzialmente storia di un’anima.
Toccherà semmai al lettore, legittimamente interessato alla “fabula”, costruirla pezzo per pezzo nella sua mente sulla base delle informazioni che ricava dal testo, mano a mano che procede nella lettura: è questa una forma di collaborazione che la narrativa modernamente sperimentale spesso richiede al lettore ed è indubbiamente presupposta anche in Oltre l’azzurro, dove la struttura tematica è decisamente prioritaria rispetto a quella della narrazione: non a caso lo stesso montaggio dei capitoli non segue alcun criterio cronologico ma ubbidisce piuttosto alla necessità interna di alternare ritmi tonalità e colori, donde scaturisce quella polifonia che è uno dei pregi maggiori di questo testo: un romanzo essenzialmente lirico, come emerge anche dalla densità del linguaggio, dall’alta metaforicità delle immagini, dall’uso creativo dell’aggettivazione, semanticamente ricchissima, dal frequente passaggio alle strutture nominali. Non a caso l’autore introduce ogni capitolo con un brevissimo corsivo lirico che nella pagina bianca s’accampa in tutta la sua nuda essenzialità, e si traduce in esperienza metafisica, anche per il lettore.
E’ questa, secondo l’autore, l’unica struttura possibile che poteva dare alla sua opera, la sola che non tradisca la complessità atemporale della memoria e l’essenziale indecifrabilità dell’esperienza.




A presentation by Anna Bordoni Di Trapani

The narrative nucleus behind Beyond the blue is an intense story of love, illness and death set in the Netherlands. The story-teller, or rather the person who evokes this tale, is the protagonist himself. The work presents itself thus as a book of private memories, the modern version of an autobiography. The approach to the subject-matter and the work’s structure are not related to the autobiographical genre of a classical kind, whereby recovered memoirs are usually arranged in an orderly scansion of logically connected chronological events, so that the speech flows regularly from a “before” to an “after”, until the conclusion of the story. Our writer decisively refuses the deforming conventions of ordinary plot-narrative, ignoring the elusive complexity of reality. He opts instead for a-temporality. This does not mean however that the novel is devoid of internal coherence but only that it must be sought elsewhere, on other structural levels.
As a matter of fact, the camera is aiming its lens here not on the narrated ego, the story’s protagonist, but on the narrating ego, on his present, extraordinary, memorial experience. What is focused, in close-up, is the narrator caught in the act of reliving fragments from his past, outside time, immersed in an “eternal present”, the present of memory. This is a subjective time, all internal, the time of the soul, where the past is not annihilated but endures, overflowing with its lights and shadows in a “continuous infinite” where ports crazed with sunlight and dreary soulless towns, bewildered dawns and shattered suns, slivers of eternity and splinters of grief, the Chamber of Nostalgia and the Room of the Shattered Windows, resurface to consciousness, and return circulating in the stream of existence. The protagonist lives in this a-temporal dimension, switching from one state of mind to another, occasionally yielding to the spontaneous and intermittent re-appearance of ghosts from the submerged rooms of memory, resurfacing to inhabit his consciousness. Boundless spaces burst open to the narrator, where an uninterrupted monologue and interior dialogue flow: reminiscences, nostalgia, free associations, evocations, meditations; and he faithfully records all this in his writing, obeying an imperious inner need.
This is why the speech proceeds through fragments, extremely short at times, emphasised also typographically by the white space separating them. A flight of dazzling images, with a strongly visual impact, rushing before the protagonist’s eyes: snap-shots linked to one another almost cinematographically. As a result, the autobiographical matter is subjected to a process of fragmentation that clearly de-structures the tale. Only rarely does the speech expatiate, allowing some room for straight-forward narration.
The diary pages themselves, dating back to the times in which the story took place, are scattered here and there by the author as tangible signs of continuity. They are however kept detached from the new parts, and in italics, and do not accomplish so much the function of a “memorial recovery”, as cinematographic flash-backs, but rather enter the present-day experience as new possible evocative starting-points of a story which is, above all, the story of a soul.
It is for the reader, interested in the “fabula”, to re-construct it piece by piece in his mind on the basis of the information he recovers whilst perusing the text. This is a form of collaboration that modernly experimental narrative often requires of the reader and it is doubtlessly pre-supposed also in Beyond the Blue, where the thematic structure is decisively preeminent to the narrative one. It is certainly not by chance that the chapters’ montage does not follow any chronological order, obeying rather the inner necessity of alternating rhythms, tonalities and colours, thus resulting in that polyphony which is one of the major virtues of this book. This is essentially a lyrical novel, as it emerges from the density of language, from the high metaphorical dimension of the images, from the creative use of adjectives, extremely rich semantically, from the frequent passage to nominal structures and style.
And moreover, it is not by chance that the author introduces each chapter with a very short poetical composition, standing alone on the blank page with its naked essentiality, which immediately translates into a metaphysical experience, both for the narrator and the reader. According to the author, this is evidently the only possible structure for this work - the only one that does not betray the a-temporal complexity of memory and the essential indecipherability of experience.